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venerdì 5 ottobre 2012

Elio Pagliarani | Ferrara - Cerca News

Elio Pagliarani | Ferrara - Cerca News
Tra 7 giorni — I lunedi' a casa di Ariosto – I poeti dei poeti: Matteo Fantuzzi (Milo de Angelis, Elio Pagliarani, Antonio Riccardi) – in – "I lunedi' a casa di Ariosto ...
ferrara.smallcountry.it/tag/elio-pagliarani/

venerdì 28 settembre 2012

LECON. Come vivere insieme.

La chanson de Roland (Barthes)
"Chi non muore si rivede / se stesso nello specchio di mattina presto / o al ritorno, nello stagno. / Fa strada su di sè senza pensieri di rilievo / .."
  • Ilaria Francesca Fiorillo J aime beaucoup!!!! ça me donne à penser...See Translation
  • Orazio Converso In un articolo apparso a suo tempo su “Le Monde”, il critico francese rileva infatti come “ostinato” sia stato, da parte di Pasolini, prendere alla lettera talune descrizioni di Sade, rendendole in scene dalla bellezza triste e gelida, come certe tavole di enciclopedia. Impossibile trasferire quella “presa alla lettera” in altre rappresentazioni. Il fascismo, qui, era stato preso seriamente, con tutta la disarmante ingenuità di cui Pasolini era capace. 

    [ovvero come dare del coglione a pasolini non in modo rozzo come faccio io, per esempio]
  • Orazio Converso Elio vide PPP di ritorno dall'India. Er Paso lo tira in un angolo e gli dice del suo shock di fronte a tanto dramma, e si dilunga. Elio, mitico, lo prende a brutto muso (ah che meraviglia il "cattivo carattere"), e dopo aver pazientato un pò, per sincerarsi se si metterà anche a lacrimare, "stai scherzandoo??" - a voi immaginare la faccia del reduce!?
    Elio commenta, ancora non se ne dà una ragione, l'infantilismo egocentrico del soggetto. Per me indimenticabile, una lecon.

ALERT 2 nuovi risultati relativi a elio pagliarani


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2 nuovi risultati relativi a elio pagliarani

SECONDO MINIFESTIVAL DI POESIA: Fabio Cavalli/Elio Pagliarani ...
SECONDO MINIFESTIVAL DI POESIA: Fabio Cavalli/Elio Pagliarani. di Fiamma Satta ...
ritornodifiamma.vanityfair.it/.../secondo-minifestival-di-poesia...
Elio Pagliarani e la ragazza Carla - Photos | Facebook
Elio Pagliarani e la ragazza Carla. 8 likes · 5 talking about this.
www.facebook.com/pages/Elio...e-la.../258390924264570?...

domenica 2 settembre 2012

[eventi] Sanguineti dall'A alla Z


In albergo i 24.000 libri di Sanguinetidare i libri alla biblioteca, poi vivere in albergo , «Percorsi non solo culturali, ma anche fisici. Sarà facile, tra qualche anno, per giovani che vengano per esempio da Voltri, arrivare in pochi minuti qua e trovare la cultura, l'università, la biblioteca, Edoardo Sanguineti» [Poi, a seguire.]

sabato 1 settembre 2012

[scuola pagliarani] two things

POESIA
voce suono parola fiato
[un verso dovrebbe esser lungo quanto dura,
in genere, una singola emissione di fiato]
ARTE
l'artista il mondo
[C’è molto Pound in Elio Pagliarani, che non è stato zitto
né si è mai fatto gli affari propri (fin dai tempi di Inventario privato)]

Lapsus di redazione

News: Walter Siti, La signorina Carla, Nuovi Argomenti di Enzo Siciliano


Walter Siti, Lezioni di fisica e Fecaloro, in Il realismo dell'avanguardia (Einaudi, 1973)

[scuola pagliarani] Quattro o cinque schiaffi

Fuori il vento piglia a schiaffi
quattro o cinque abeti squallidi:
gli orsi bianchi sono pallidi
pel gran freddo, e si dan graffi   
10
l’un con l’altro per distrarsi...

giovedì 30 agosto 2012

[scuola pagliarani] palazzeschi interno/esterno/C

esterno
Elio Pagliarani legge Palazzeschi.
 Ara Mara Amara
In fondo alla china,
fra gli alti cipressi,
è un piccolo prato.
Si stanno in quell’ombra
tre vecchie
giocando coi dadi.
Non alzan la testa un istante,
non cambian di posto un sol giorno.
Sull’erba in ginocchio
si stanno in quell’ombra giocando.

[scuola pagliarani] interno/esterno/A

La vasca delle anguille, La vecchia del sonno.
 
esterno



La vasca è assai grande
E l’acqua v’è fonda quattr’uomini almeno.
Si dice: “vi sono le anguille”.
Sta intorno nel giorno la gente a pescare alla canna.
“Son grosse le anguille,
piu’ grosse d’un bimbo fasciato”, si dice.
Sta intorno nel giorno la gente a pescare alla canna.
“Son buone le anguille,
piu’ buone del pane e del miele”, si dice.
Sta intorno nel giorno la gente a pescare alla canna. 

mercoledì 29 agosto 2012

[scuola pagliarani] interno/esterno/B

esterno
La vecchia del sonno

Centanni ha la vecchia.
Nessuno la vide aggirarsi nel giorno.
Sovente la gente la trova a dormire
vicino alle fonti:
nessuno la desta.
Al dolce romore dell'acqua
la vecchia s'addorme,
e resta dormendo nel dolce romore
dei giorni dei giorni dei giorni...


La vasca delle anguille | Anno 1905 | Raccolta originale Cavalli bianchi | Metro 10 versi di 6, 9, 12 o 15 sillabe.[Vedi Palazzeschi, A. I cavalli bianchi/Lanterna/Poemi, Poesie 1905­1909, a cura di G. DeAngelis, Roma Edizioni Empiria, 1996]

martedì 28 agosto 2012

[scuola pagliarani] Palazzeschi INTERNO / ESTERNO

Le prime deliziose poesie giovanili di Aldo Palazzeschi. Chi l'ha viste? Ecco dove la lettura diventa strategica - Scuola Pagliarani


domenica 26 agosto 2012

[per elio] senza alibi

Questo poeta che non crede a oltremondo (per questo, forse, anche scansa qualunque teodicea!), ha separato i campi del cielo e della terra (della ragione e della religione) con una durezza che pertiene solo (o soprattutto) alla fisiologia («lasciamo Dio che non ha bisogno di nulla / Predica lo Inferno: lui si leverà suso»: è ancora un Savonarola, mascherato o reduplicato iperrealisticamente, lugubre voce orripilata in deserto).
La malinconia impolitica di questo strano engagé disingaggiato: resta agguantare il fotogramma (non dirò l’epifania) della vita sfuggente, che non si sa mai dove stia (e cosa sia) ma sempre sguscia dispettosa già altrove (così «si arriva a un altro sabato, ma casca / un approccio, o si perde per aria: domenica bis»).
Pagliarani ha spettinato e maltrattato spesso, tutte le volte che occorreva, le chiavi del suo cordofono: per amore della forma, ed in odio ai poetini in cerca del lauro (castigati & diarroici, li avrebbe mandati forse tutti al gabbio). Sapeva che il destino della poesia non si gioca su porzioni metriche; nemmeno su equivoche – arroganti o mal fondate – rimuginazioni di tradizione e avanguardia (da compartirsi in misura variamente omeopatica). Il tempo è un moloch, oppure anche non esiste: ‘je est un autre’, però insieme noi qui stiamo, forzati ad esistere in corpore empirico (‘hic NON manebimus optime’). Non ci si traveste come si sceglierebbe un abito; la lingua sceglie noi, e forse ci risputa. «L’eternità non ha termine o fine alcuno. / E però [= per hoc] le poesie non hanno senso allegorico».

Dietro il poeta politico – nei remotissimi esordî di Pagliarani – ritrovo a una svolta una specie di rabbiosa professione d’amour fou infervorato (quasi sorda minaccia sillabata o urlata): «Io non ti lascio alibi, ti amo / con la crudeltà necessaria per rischiare / la tua vita perché la mia è in gioco». Residuo secco surrealista? Mi dico (delirando) che questo è sempre Cavalcanti (va messo in conto – un’altra volta – alla lezione di Pound).

[per elio] la ragazza carla

A una svolta della Ragazza Carla c’è un lungo calco impressionante che sembra tale e quale lo zio Ezra («nell’affare della soda, bell’e concluso in un momento delicato / […] / fu il rapporto dello scambio / dollaro sterlina – si compra a sterline si vende in dollari / a Londra c’è cancelliere un matto / che buttò a mare l’affare»); volti pagina e spunta Bertoldo Brecht shakerato in salsa surrealista, o in un ritratto di padrone delle ferriere à la Grosz («ci sono anche quelli che a sera / si tolgono un occhio mettendolo accanto / alla scrittura di Churchill, sul comodino, / intanto che fumano la sigaretta: / è un occhio fasullo, di vetro, ma è vera / l’orbita cava nel volto»). Lattes-Fortini – mentre fa mostra di un giudizio inopinatamente quasi benevolo – dice sùbito che nella Ragazza Carla manca in fondo «ogni progressione» («la sicurezza e la plausibilità narrativa: probabilmente perché lo schema narrativo è già slogato, già posto fuori del tempo cronologico, prima che gli inserti lirici provvedano alle transizioni»); non sembra disposto a scommettere che la staffetta-mescidanza delle voci, il frenetico ‘saltar di lato’ dello sguardo di Pagliarani (d’en haut e d’en bas alternativamente: fra una casa di ringhiera, il vuoto/pieno delle strade, o il vetro schermato di qualche indichiarabile sancta santorum) è un altro modo di corrispondere al romanzo con le armi precipue della lirica: un poco – modernisticamente – un altro rincorrere il solito fantasma assillante dello spazio/tempo, sulle piste di una forma che nasce esibitivamente scoturnata (quasi grumo di tranches de vie) e poi cresce organando in un solo composto il falso e il vero, rubati maliziosamente (come un rubato in musica), manovrati in un teatro che finge beffardo di non avere più quinte, mescolati di bile cachinnî e qualche lacrima (ma signore di tutti gli organi resta il cervello!). Sono le lacrymae rerum, ma poi non perdiamo tempo in farneticazioni da vedovelle del socialismo che non diventa evangelo in terra. Chi ha tempo (anche per odiare: ‘odi et amo’), non aspetti altro tempo. «È nostro questo cielo d’acciaio che non finge / Eden e non concede smarrimenti, / è nostro ed è morale il cielo / che non promette scampo dalla vita […]».

[per elio] fa benissimo alla poesia

Un pazzo che gioca allo sfascio? No, un moralista che non si rifiuta al buffonesco: un momento fa scialo del proprio nervosismo o tedio, un altro veste panni di scimmia-ventriloquo, un attimo ancora e forse starà scolpendo qualche indovinello nella pietra («facciamo le corna ma il giusto / muore nel suo letto / anche Cristo l’ha detto»). Sono tanti giuochi di cacofonie preparate (vedi sub voce: ‘pianoforte preparato’); se non fossero enigmi talora anche sibillini o indecifrabili, sarebbe roba meschina da giullari (marionette del vaudeville padronale). Serve anzi fa benissimo, alla poesia, un acceleratore di gravità: separa il nucleo dall’elettrone, scioglie Perelà (o il deficiente Ubu) dalla gabbia. 

[per elio] potere del comico

Crescono, coi fatturati aziendali, gli indici del prodotto interno lordo; il progresso è un razzo ma le parole mancano (tranne quelle – sùbito evanescenti – del mercato). Porgere la battuta a chi non la trova: sarebbe ancora la vecchia ricetta dell’ottocento (deamicisiana, populista, troppo facile). Meglio auscultare gli oscillogrammi del rumore. Indignatio facit versum, ma poi chi mettere veramente nel mirino? Il bersaglio si sposta frenetico – come valsente che sembra mercurio impazzito. Tutti i santi aiutano, ma specialmente quelli modernisti: ricordano a Pagliarani che il potere è un moloch terribilmente comico. Va su come se fosse elio, questo poeta che non si riempie mai la bocca d’aria. Noi lasciamolo divertire, anche quando il latrato del riso rimanda un’eco atrabiliare (come un ghigno di sfinge): gli urti sono dissonanze programmate, cortocircuiti per fare esplodere il silenzio in mille pezzi. Divertimento: è uscire improvvisamente dal microsolco.


[per elio] bellettristica e castrata

Glossolalìa può sempre risolversi in bellettrismo (eterogenesi dei fini?): forse il socialista libertario (il dottorino Elio, inurbato di Viserba) ha letto Gramsci meglio del chierico organico (o con più franco scapestrato disinteresse). «Proviamo ancora col rosso» (dirà più tardi Pagliarani): azzeriamo per un momento tutte le metafore. Una cosa è una cosa è una cosa. L’allegoria è teologica, ma la lettera è polisemica: il sermo humilis (Sanguineti-Auerbach) è una posizione stilistica, il sermo cotidianus (Pagliarani) una rivendicazione politica. La lingua dell’alienazione diventa gergo facilmente (oppure idioletto): non spacciamo una veglia funebre come fosse il primomaggio. Tra i feticci delle merci e della moneta, poco varrebbe atteggiarsi a profeti (nemmeno a cassandre): una palingenesi (se mai viene!) non sarà per domattina. Il fine è nulla ma il movimento è tutto, dunque in cinquant’anni potrà capitar spesso di rimettere mano all’organico strumentale. “Less is more”, ma poi le afasie vanno esplorate caso per caso, virando l’angoscia in latitudine paziente del discorso. Gli è che il caleidoscopio della realtà non sta vincolabile in nessuna formula. «Ci tocca vivere il no misurarlo coinvolgerlo in azione e tentazione»: per salmodiare la città che sale e cambia, non basta mai polmone o fiato (persino un doppio endecasillabo può sembrare un moncherino). 

[per elio] il cordoglio

Certe questioni, c’è solo un mezzo per investigarle («Poeta è una parola che non uso / di solito, ma occorre questa volta perché / respinti tutti i tipi di preti a consolarci non è ai poeti che tocca dichiararsi / nella nostra morte, ora, della morte illuminarci?»). La morte… alla lettera, o per metafora («quanto di morte noi circonda e quanto / tocca mutarne in vita per esistere / è diamante sul vetro, svolgimento / concreto d’uomo in storia che resiste»). Questione preminente, che tutte le riassume: “perché i figli di Prometeo sono di nuovo infelici?”. Una domanda che può sembrare uno scherzo da prete: e virtù di ogni buon soldato (tale, anche la stenodattilo Carla di anni diciassette) resta tenere la bocca chiusa («ma senza fantasia / come può immaginare di commuoversi?»). Certi nevrotici ammutiscono, altri si fanno funestamente logorroici. Il cordoglio: è roba da preti (o da poeti). Sanguineti sceglieva di risolvere in grande polifonia un referto clinico: anche il brago è una couche per acquattarcisi comodi, scaldati al tepore di questo purgatorio de l’inferno.

[per elio] inventario privato

C’è molto Pound in Elio Pagliarani, che non è stato zitto né si è mai fatto gli affari propri (fin dai tempi di Inventario privato). Armato di penna e stetoscopio, ha scrutato per primo fra le maglie traslucide della città che sale: il sistema cambiava pelle ma chiedeva ancora obbedienza (l’aziendalismo è un fascismo). «Tener duro sul rapporto comunicativo», segnala ab initio la peculiarità della sua posizione in seno ai novissimi: salvare la sovrapponibilità del dettato a un’esperienza misurabile sulla cosalità del mondo.
LdiP 1990

[per elio] una singola emissione di fiato

Un adepto della cerchia di Ezra Pound – l’irrequieto Charles Olson, amico e conversatore nei pomeriggi di St. Elizabeth – provò a fissar la cosa quasi in termini generali: un verso dovrebbe esser lungo quanto dura, in genere, una singola emissione di fiato (a bocce ferme, sovvengono ratifiche di metricologi in cattedra: ‘carattere distintivo del discorso poetico è sempre la segmentazione’).


[per elio] incipit

«Nell’insipienza mia dico che mi bisogna parlare»: per fare un poeta, qualche volta, basta un grande incipit (qui viene dagli Epigrammi ferraresi del 1987, rimodulati sulle prediche di Savonarola). Superbamente aforistico, Pagliarani lo è stato sempre: capriolettante – ilare o aggrondato – come un ginnasta al volteggio. Un narratore che la sa molto lunga (come il suo verso oversize, contumace a ogni gabbia di contenzione): torrenziale, non mai lutulento.

sabato 18 agosto 2012

Per Elio Pagliarani, Diego Varini

Who knows what it insists in the circuit
HELIUM PAGLIARANI. "My Nell'insipienza say that I need to talk 'to make a poet, sometimes, just a great opening words (here comes from the Epigrams ... [D.V.]
www2.unipr.it / ~ pieri / pagliarani.htm

 Il cordoglio: è roba da preti (o da poeti).

PER ELIO PAGLIARANI, Diego Varini
(unipr/pieri/pagliarani)


«Nell’insipienza mia dico che mi bisogna parlare»: per fare un poeta, qualche volta, basta un grande incipit (qui viene dagli Epigrammi ferraresi del 1987, rimodulati sulle prediche di Savonarola). Superbamente aforistico, Pagliarani lo è stato sempre: capriolettante – ilare o aggrondato – come un ginnasta al volteggio. Un narratore che la sa molto lunga (come il suo verso oversize, contumace a ogni gabbia di contenzione): torrenziale, non mai lutulento. Un adepto della cerchia di Ezra Pound – l’irrequieto Charles Olson, amico e conversatore nei pomeriggi di St. Elizabeth – provò a fissar la cosa quasi in termini generali: un verso dovrebbe esser lungo quanto dura, in genere, una singola emissione di fiato (a bocce ferme, sovvengono ratifiche di metricologi in cattedra: ‘carattere distintivo del discorso poetico è sempre la segmentazione’). 

C’è molto Pound in Elio Pagliarani, che non è stato zitto né si è mai fatto gli affari propri (fin dai tempi di Inventario privato). Armato di penna e stetoscopio, ha scrutato per primo fra le maglie traslucide della città che sale: il sistema cambiava pelle ma chiedeva ancora obbedienza (l’aziendalismo è un fascismo). «Tener duro sul rapporto comunicativo», segnala ab initio la peculiarità della sua posizione in seno ai novissimi: salvare la sovrapponibilità del dettato a un’esperienza misurabile sulla cosalità del mondo. Certe questioni, c’è solo un mezzo per investigarle («Poeta è una parola che non uso / di solito, ma occorre questa volta perché / respinti tutti i tipi di preti a consolarci non è ai poeti che tocca dichiararsi / nella nostra morte, ora, della morte illuminarci?»). La morte… alla lettera, o per metafora («quanto di morte noi circonda e quanto / tocca mutarne in vita per esistere / è diamante sul vetro, svolgimento / concreto d’uomo in storia che resiste»). Questione preminente, che tutte le riassume: “perché i figli di Prometeo sono di nuovo infelici?”. Una domanda che può sembrare uno scherzo da prete: e virtù di ogni buon soldato (tale, anche la stenodattilo Carla di anni diciassette) resta tenere la bocca chiusa («ma senza fantasia / come può immaginare di commuoversi?»). Certi nevrotici ammutiscono, altri si fanno funestamente logorroici. Il cordoglio: è roba da preti (o da poeti). Sanguineti sceglieva di risolvere in grande polifonia un referto clinico: anche il brago è una couche per acquattarcisi comodi, scaldati al tepore di questo purgatorio de l’inferno. 

Glossolalìa può sempre risolversi in bellettrismo (eterogenesi dei fini?): forse il socialista libertario (il dottorino Elio, inurbato di Viserba) ha letto Gramsci meglio del chierico organico (o con più franco scapestrato disinteresse). «Proviamo ancora col rosso» (dirà più tardi Pagliarani): azzeriamo per un momento tutte le metafore. Una cosa è una cosa è una cosa. L’allegoria è teologica, ma la lettera è polisemica: il sermo humilis (Sanguineti-Auerbach) è una posizione stilistica, il sermo cotidianus (Pagliarani) una rivendicazione politica. La lingua dell’alienazione diventa gergo facilmente (oppure idioletto): non spacciamo una veglia funebre come fosse il primomaggio. Tra i feticci delle merci e della moneta, poco varrebbe atteggiarsi a profeti (nemmeno a cassandre): una palingenesi (se mai viene!) non sarà per domattina. Il fine è nulla ma il movimento è tutto, dunque in cinquant’anni potrà capitar spesso di rimettere mano all’organico strumentale. “Less is more”, ma poi le afasie vanno esplorate caso per caso, virando l’angoscia in latitudine paziente del discorso. Gli è che il caleidoscopio della realtà non sta vincolabile in nessuna formula. «Ci tocca vivere il no misurarlo coinvolgerlo in azione e tentazione»: per salmodiare la città che sale e cambia, non basta mai polmone o fiato (persino un doppio endecasillabo può sembrare un moncherino). Crescono, coi fatturati aziendali, gli indici del prodotto interno lordo; il progresso è un razzo ma le parole mancano (tranne quelle – sùbito evanescenti – del mercato). Porgere la battuta a chi non la trova: sarebbe ancora la vecchia ricetta dell’ottocento (deamicisiana, populista, troppo facile). Meglio auscultare gli oscillogrammi del rumore. Indignatio facit versum, ma poi chi mettere veramente nel mirino? Il bersaglio si sposta frenetico – come valsente che sembra mercurio impazzito. 

Tutti i santi aiutano, ma specialmente quelli modernisti: ricordano a Pagliarani che il potere è un moloch terribilmente comico. Va su come se fosse elio, questo poeta che non si riempie mai la bocca d’aria. Noi lasciamolo divertire, anche quando il latrato del riso rimanda un’eco atrabiliare (come un ghigno di sfinge): gli urti sono dissonanze programmate, cortocircuiti per fare esplodere il silenzio in mille pezzi. Divertimento: è uscire improvvisamente dal microsolco. Un pazzo che gioca allo sfascio? No, un moralista che non si rifiuta al buffonesco: un momento fa scialo del proprio nervosismo o tedio, un altro veste panni di scimmia-ventriloquo, un attimo ancora e forse starà scolpendo qualche indovinello nella pietra («facciamo le corna ma il giusto / muore nel suo letto / anche Cristo l’ha detto»). Sono tanti giuochi di cacofonie preparate (vedi sub voce: ‘pianoforte preparato’); se non fossero enigmi talora anche sibillini o indecifrabili, sarebbe roba meschina da giullari (marionette del vaudeville padronale). Serve anzi fa benissimo, alla poesia, un acceleratore di gravità: separa il nucleo dall’elettrone, scioglie Perelà (o il deficiente Ubu) dalla gabbia. A una svolta della Ragazza Carla c’è un lungo calco impressionante che sembra tale e quale lo zio Ezra («nell’affare della soda, bell’e concluso in un momento delicato / […] / fu il rapporto dello scambio / dollaro sterlina – si compra a sterline si vende in dollari / a Londra c’è cancelliere un matto / che buttò a mare l’affare»); volti pagina e spunta Bertoldo Brecht shakerato in salsa surrealista, o in un ritratto di padrone delle ferriere à la Grosz («ci sono anche quelli che a sera / si tolgono un occhio mettendolo accanto / alla scrittura di Churchill, sul comodino, / intanto che fumano la sigaretta: / è un occhio fasullo, di vetro, ma è vera / l’orbita cava nel volto»). Lattes-Fortini – mentre fa mostra di un giudizio inopinatamente quasi benevolo – dice sùbito che nella Ragazza Carla manca in fondo «ogni progressione» («la sicurezza e la plausibilità narrativa: probabilmente perché lo schema narrativo è già slogato, già posto fuori del tempo cronologico, prima che gli inserti lirici provvedano alle transizioni»); non sembra disposto a scommettere che la staffetta-mescidanza delle voci, il frenetico ‘saltar di lato’ dello sguardo di Pagliarani (d’en haut e d’en bas alternativamente: fra una casa di ringhiera, il vuoto/pieno delle strade, o il vetro schermato di qualche indichiarabile sancta santorum) è un altro modo di corrispondere al romanzo con le armi precipue della lirica: un poco – modernisticamente – un altro rincorrere il solito fantasma assillante dello spazio/tempo, sulle piste di una forma che nasce esibitivamente scoturnata (quasi grumo di tranches de vie) e poi cresce organando in un solo composto il falso e il vero, rubati maliziosamente (come un rubato in musica), manovrati in un teatro che finge beffardo di non avere più quinte, mescolati di bile cachinnî e qualche lacrima (ma signore di tutti gli organi resta il cervello!). Sono le lacrymae rerum, ma poi non perdiamo tempo in farneticazioni da vedovelle del socialismo che non diventa evangelo in terra. Chi ha tempo (anche per odiare: ‘odi et amo’), non aspetti altro tempo. «È nostro questo cielo d’acciaio che non finge / Eden e non concede smarrimenti, / è nostro ed è morale il cielo / che non promette scampo dalla vita […]». Questo poeta che non crede a oltremondo (per questo, forse, anche scansa qualunque teodicea!), ha separato i campi del cielo e della terra (della ragione e della religione) con una durezza che pertiene solo (o soprattutto) alla fisiologia («lasciamo Dio che non ha bisogno di nulla / Predica lo Inferno: lui si leverà suso»: è ancora un Savonarola, mascherato o reduplicato iperrealisticamente, lugubre voce orripilata in deserto). 

La malinconia impolitica di questo strano engagé disingaggiato: resta agguantare il fotogramma (non dirò l’epifania) della vita sfuggente, che non si sa mai dove stia (e cosa sia) ma sempre sguscia dispettosa già altrove (così «si arriva a un altro sabato, ma casca / un approccio, o si perde per aria: domenica bis»). Pagliarani ha spettinato e maltrattato spesso, tutte le volte che occorreva, le chiavi del suo cordofono: per amore della forma, ed in odio ai poetini in cerca del lauro (castigati & diarroici, li avrebbe mandati forse tutti al gabbio). Sapeva che il destino della poesia non si gioca su porzioni metriche; nemmeno su equivoche – arroganti o mal fondate – rimuginazioni di tradizione e avanguardia (da compartirsi in misura variamente omeopatica). Il tempo è un moloch, oppure anche non esiste: ‘je est un autre’, però insieme noi qui stiamo, forzati ad esistere in corpore empirico (‘hic NON manebimus optime’). Non ci si traveste come si sceglierebbe un abito; la lingua sceglie noi, e forse ci risputa. «L’eternità non ha termine o fine alcuno. / E però [= per hoc] le poesie non hanno senso allegorico».
Dietro il poeta politico – nei remotissimi esordî di Pagliarani – ritrovo a una svolta una specie di rabbiosa professione d’amour fou infervorato (quasi sorda minaccia sillabata o urlata): «Io non ti lascio alibi, ti amo / con la crudeltà necessaria per rischiare / la tua vita perché la mia è in gioco». Residuo secco surrealista? Mi dico (delirando) che questo è sempre Cavalcanti (va messo in conto – un’altra volta – alla lezione di Pound).

martedì 31 luglio 2012

[Pagliarani in U.S.A.] Madison


Scuola Pagliarani
Pagliarani in U.S.A.
Madison


A Elio piacciono le belle ragazze, un po’ decise e con gli occhi intelligenti. E l’allieva di Ballerini, quella che lo segue per la conferenza a Madison, è proprio così. Una studentessa alta e bruna che guida una macchina che sembra un treno, di quelle con letto e frigo. Una garibaldina.A Madison è già autunno. Lettura a casa di Patrick e Grazia. Lago sullo sfondo. Bambini che corrono.Dopo, o prima?, nella libreria. Ma è una libreria speciale. Dove si possono bere cento tipi di cioccolata e cento tipi diversi di the o caffè. Via vai di studenti.Brava. Ma che brava.Anche qui una grande vetrata. Sembra il paese di Peter Pan. Mentre guardo per strada non passa nessuno che abbia più di venticinque anni.

Nel gioco futurista

lunedì 23 luglio 2012

[Pagliarani in U.S.A.] Telecamera II

Pagliarani in U.S.A.
Telecamera II

Cerco di ricordarmi di Amedeo. Com’è che fa Amedeo? Tiene fisso l’occhio. Fa qualche zoommata, poche. Inquadra per linee. Tengo presente la ripresa stupenda di Rosselli e Corso. Tengo presente la ripresa del Paglia sulle scale di Via Margutta. Tengo presente che l’occhio deve lasciare che parlino le mani del Paglia. Di striscio, in diagonale.
Ma Amedeo è abituato a reggere pesi. Perché per tenere una telecamera ci vuole un polso forte e una mano ferma, fermissima, cosa che non ho. Riuscire a cambiare cassetta in tempo. Riuscire ad evitare i fruscii. Riuscire a ricaricare per tempo la macchinina. E mentre si pensano, si fanno tutte queste cose, la loro lettura in duetto avanza e come si fa a perderla? Dunque per ansia di fissare la mano trema e il fruscio si fa sempre più forte. Eppure quei due sono stupendi. Fanno un duetto Pagliarani e Vangelisti. Sono sostenuti dalla stessa cosa. Dalla stessa scommessa – io tanto ho consegnato un biglietto/ c’è scritto che non rinuncio - vederli insieme in diagonale, creare io la diagonale, la voce di Paul che marca e costeggia quella del Paglia. Il Paglia che lo guarda come si guarderebbe un figlio più giovane. Chi se ne importa del fischio e del balletto delle immagini. Sono di scuola Pagliarani e non lo so. Sto ai margini. Sempre. Sto imparando. “ E non ho ancora finito di farlo”.
Le linee della poesia del Paglia. La circolarità non ossessiva del testo. Dirlo per immagini. Dirlo per sbaglio.

La violenza del sentire. L’essere qui adesso. Ci sta bene che sia spezzato dal mio dilettantismo. Non sono un regista Rai. Sono di scuola Pagliarani.

Cin Cin Pagliarani

Alternata Silos
July 24 2012

Cin cin
Elio Pagliarani — with Flora Bisegna, Idea Prisma Cooperativa Sociale, Stefano Cignitti, Filo Continuo Ininterrottamente, Al Barnaut, Simona Marra, Rossella Lauro, Enzo Berardi, Dani Frizzly and Marta Pig.
Tags: SILOSò/SILOS/S.I.LO.Sò.

venerdì 20 luglio 2012

Scuola Pagliarani all'Isola


Scuola Pagliarani [23 luglio 2012] Cetta Petrollo all'Isola


[...] Adesso un po’ di aneddotica. Che a Pagliarani piaceva. Per affrontare la questione partendo dai margini e, per così dire , alleggerirla.
Eravamo a Via del Babuino, in un pomeriggio di settembre e credo fosse il 1977 e si parlava. Pagliarani era un grande maestro. Raccontava la storia e le storie. A chi amava raccontava. La sua passione per la storia e le storie degli uomini era vera e profonda.
Dunque come al solito mi raccontava storie.
E si parlava dei giovani e della politica. E io dico: “ Elio tu hai una enorme capacità didattica. Perché non apriamo una scuola? In questo momento ci sarebbe bisogno di una scuola”
E lui davanti alla libreria Feltrinelli, prima di attraversare la strada: “ Sì, brava, una scuola di poesia. Oggi chiamo Plinio”


Così in pochissimo tempo partì la prima edizione, presso la Galleria La Tartaruga ( suppongo nel 1977 ed è storicizzata nel numero 10/11 di Periodo Ipotetico). Inaugurazione molto romana alla presenza di Maria Luisa Spagnoli, di Marisa e Franco Bartoccini, di tutto il gruppo dei cesarettiani ( Cesaretto, così era chiamata la Fiaschetteria Beltramme in via della Croce di cui, chissà perché, ora mi viene in mente solo l’avvocato Ciarletta e di Carlo Conticelli, storico libraio della Feltrinelli. Insomma, sapete com’era in quegli anni, era tutto mischiato, splendidamente mischiato, gli architetti e gli industriali andavano, partecipavano a queste cose anche se non scrivevano un rigo di poesia, la società civile c’era e si interessava davvero alla letteratura, insomma nella scia lunga degli anni Sessanta anche gli anni Settanta erano pieni di curiosità verso il mondo ed i gesti della letteratura e della poesia.
E certo i poeti. Che Pagliarani fece tutti sedere in fila e intervistò pubblicamente. Chi sei. Cosa fai. Leggi qualcosa. Chi erano questi poeti? Certo erano tutti romani e i ricordi si confondono. Sicuramente ricordo un giovanissimo Valerio Magrelli e poi nella terza e quarta edizione del Laboratorio ( la seconda essendo sempre alla Tartaruga), anni 1980 e 1981, tutto il gruppo meraviglioso della Tigre in corridoio, una delle orchestrine di Pagliarani, questi ragazzi, generazione Cinquanta e dintorni, infatti leggevano bene ed erano tutti di famiglia proletaria o quasi e non è che Pagliarani li scegliesse così però così spesso capitava, ed era una grande esperienza vedere quello che succedeva quando Pagliarani ascoltava le poesie di persone che nella vita non campavano per la letteratura, o per l’insegnamento o per il giornalismo ( “ le peggiori categorie che ci sono in Italia sono quelle dei professori e dei giornalisti, siamo messi male io e te, Cetta” .
E quindi Antonio De Rose, Danilo Plateo, Gianni Rosati, Chiara Scalesse, Orazio Converso, Rosario Romero, Guido Galeno.
Molti altri poi, ma nel dubbio di non citarli tutti, non ne cito nessuno. Fatto sta che la Casa dello studente era sempre piena e le riunioni erano sempre calde e intellettualmente stimolanti.
Cosa diceva Pagliarani? Pagliarani soprattutto ascoltava. Burbero e assolutamente sincero nei commenti ma come un vero maestro senza mai uccidere la speranza né dare l’idea di possedere la verità.
Intanto il ritornello: i generi della poesia sono tanti e c’è spazio per tutti.
E poi se una poesia era bella ma l’autore la leggeva male lui non resisteva: “ dammi qua, la leggi male”
E non so, ma la poesia che prima ti sembrava brutta, cioè che sembrava ti lasciasse tale e quale eri prima di averla ascoltata, letta dalla sua voce e dal suo corpo, dove si sovrapponevano i piani del basso, in un ampio, generoso registro ritmato, diventava di colpo bellissima e il testo buttava fuori tutta la sua sottotraccia ritmica.


Una voce di mare. Andare su youtube per averne la prova.



Non solo scuola di poesia per così dire ma scuola di lettura con ciò sottolineando i due aspetti inscindibili della scrittura poetica e forse di ogni scrittura, la relazione, la voce, l’ascolto. Non è la stessa cosa leggere e scrivere con gli occhi. Farlo in solitudine.
Il gesto di Pagliarani era nella relazione dell’esserci. Qui, in questo momento, con gli altri ( e i racconti dei suoi reading in Georgia e in Sicilia da Buttitta, contadini e stranieri che arrivano al solo sentirlo, anche senza comprendere il testo, ma per la potenza dell’affabulazione, della voce).
Gli ultimi Laboratori a Via Margutta, prima di lasciarla, dunque siamo nel 1990 e 1991. Tutti, a turno, nella seggiolona nera con la stellina comperata a Porta Portese, tranne la padrona di casa che il suo laboratorio ce l’aveva tutti i giorni dalla mattina ( risveglio con verso diverso a seconda dell’umore) alla sera quando ci si infuriava su cose che con la poesia sembravano non aver nulla a che fare, ma ce l’avevano, eccome se ce l’avevano.
E poi fra il ’91 e il ’92 le ultime esperienze da Notegen a via del Babuino ( registrato il tutto da Paola Febbraro e da lei donatoci ).
E non potrei chiudere in modo migliore che citando Orazio Converso col suo ricordo del Laboratorio consegnato ad Alphabeta2:
“Elio raccontava di aver pensato spesso di imitare un eccentrico concittadino tanto fantasioso quanto intraprendente che nell'arduo dopoguerra delle campagne s'era inventato una fantomatica Scuola Popolare Itinerante di Agricoltura per sbarcare il lunario. Ora che il laboratorio, ed Elio stesso, "sono diffusi come pioggia sulla terra, divisi come un’ultima ricchezza, sono radice ormai...", per dirla col Poeta, possiamo pensare agli aggettivi, popolare e itinerante, che sono stati la marca del suo lavoro didattico: e che può essere anche nostra, per continuare. Magari col digitale che ora è lanciato oltre l'ostacolo. Sperimentare era così naturale per Elio Pagliarani che non è facile però immaginare come si possa riprendere il pathos dei suoi incontri in una scena distratta e dispersa che per fare ascolto avrebbe tanto bisogno invece del suo esserci . Un insopportabile stato di distrazione insidia la poesia, ma non solo. Fuor di metafora, Elio Pagliarani teneva insieme e rilanciava, individuava, i nodi che ogni nuovo poeta proponeva al suo ascolto. Faceva rete suo malgrado, per così dire, e di ciò era pienamente consapevole: pensiamo alla grande antologia virtuale di testi che il suo magistero dell'ascolto pubblico ha messo insieme in questi anni, ma questo è un passaggio troppo difficile da raccogliere anche per il possente digitale se non c'è più Pagliarani.” 

sabato 9 giugno 2012

Chi ha conosciuto Elio Pagliarani

 | Domenico Donatone |
"..nel suo pezzo riferisce di una “esacerbata moralità”, di uno “stoicismo brutale”, di una “passione pedagogica”, di “un’attitudine teatrale”: tutte cose della persona-Elio Pagliarani, non della sua poesia che resiste comunque anche se egli fosse stato un uomo timido o estroverso. Allora giova conoscere il poeta? Giova conoscere l’oggetto-persona della tua critica? No! Giova nella misura in cui decidi di stare dentro la poetica oppure di curiosare, di indagare, (come fece Antonio Ranieri con Leopardi); nei casi estremi è utile a farti chiarire quello che il poeta ha scritto.
Chi ha conosciuto Elio Pagliarani potrà in questi giorni scrivere i suoi “coccodrilli”, esprimere i propri ricordi, io, invece.."

Quanto di morte noi circonda e quanto
tocca mutarne in vita per esistere
è diamante sul vetro, svolgimento
concreto d’uomo in storia che resiste
solo vivo scarnendosi al suo tempo
quando ristagna il ritmo e quando investe
lo stesso corpo umano a mutamento.

Ma non basta comprendere per dare
empito al volto e farsene diritto:
non c’è risoluzione nel conflitto
storia esistenza fuori dell’amare
altri, anche se amore importi amare
lacrime, se precipiti in errore
o bruci in folle o guasti nel convitto
la vivanda, o sradichi dal fitto
pietà di noi e orgoglio con dolore.

venerdì 1 giugno 2012

con Elio Pagliarani in studio


Nel ricordo dell'autore della "Ragazza carla" 
Io nella seconda guerra mondiale; anzi la seconda guerra mondiale io in quella dentro. Primo ricordo: dissi o scrissi a Tertulliano, nel '39-40, cioè nei miei dodici-tredici anni, di essere assolutamente contrario alla guerra, che per noi Italiani sarebbe andata male in ogni caso: se avessero vinto i Tedeschi saremmo diventati non più che loro vassalli (come avevamo già cominciato ad esserlo con le leggi razziali del '38: ma questo lo penso ora), figuriamoci se avessero vinto gli alleati. Mi stupii anche allora di aver adoperato il termine "vassalli", così vecchiotto. Ricordo anche che una volta pensai che la guerra avrebbe portato alla svalutazione della moneta e quindi sarebbe stato bene possedere delle azioni e scelsi dentro di me le Eridania, zucchero e alimentari: non sarebbero crollate, la gente mangia sempre (occorre dirlo che in casa mia né allora né dopo si sono m ai viste, nemmeno per vedere come sono fatte, quel tipo di azioni, alimentari e non ?).
Quando ci trovammo dentro, nella guerra, la mia prima attività specifica, cioè collegata, dovuta alla guerra, consistette nel portare sacchetti di grano a macinare, a farne farina per pane e pasta (grano da macinare che compravamo a buon prezzo dagli zii poi tutori di mia mamma diventata a sette anni orfana di entrambi i genitori; questi zii erano mezzadri di un buon podere a Riserba a monte). C'erano dei mulini che macinavano clandestinamente trattenendosi il compenso con una modesta parte di farina macinata.
Non ho mai saputo e non so in che cosa consisteva la clandestinità di quella operazione: so che non la effettuavano tutti i mulini e che questi non erano sempre gli stessi; dove si trovassero non era difficile capirlo: bastava addentrasi un po' nella campagna più fitta e a un certo punto, facilmente ci si imbatteva in un mucchio di gente che faceva la fila: erano quasi tutte donne, e qualche ragazzetto come me: io in bicicletta portando ogni volta tra i venti e i trenta chili di grano. Talvolta la fila scorreva rapida, talaltra era lentissima, nel qual secondo caso io, nel '41-42, mi arricchivo di qualche esperienza teorica del mondo. Per preciso esempio: a un certo punto mi accorgo che c'è, se non proprio una lite, un battibecco risentito fra due donne o tre: a una sarebbe sfuggita la parola "cazzo"; un'altra l'avrebbe rimproverata dicendole: "... poi stavi parlando con una dell'Azione cattolica...”, ma si ebbe questa precisa risposta gridata: "Perché, a lei non gli piace? Io ho vent'otto anni, lo conosco da quattordici e mi ci trovo benissimo!”.
Un altro ricordo preciso è dell'inverno '42-43 in treno: l'inverno andavo a scuola a Rimini in treno e ogni tanto si formavano, fra noi studenti di Vìserba, Bellaria, Cesenatico che andavamo a scuola a Rimini, dei crocchi nei quali io stavo più spesso zitto, ma quasi sempre attento e curioso: in questo contesto sentii affermare gravemente da un ragazzo magro e pallido, ma già grandino, di due o tre anni più grande di me, notoriamente cattolico e frequentatore del Vescovado di Rimini (non so proprio a che titolo) che ormai avevamo perso la guerra (probabilmente si riferiva alle conseguenze della battaglia di Stalingrado, ma questo allora non lo sapevo e comunque non mi pare che quel ragazzo di  Cesenatico lo avesse precisato). Comunque mi fece un certo effetto sentirmelo dire in quel periodo in quel contesto.
Io per me passavo il tempo libero dal poker, al ramino-pokerato, al bridge e a dare ripetizioni private anche ben pagate. Una sera del luglio '43 stavo giocando a bridge a Viserba, in un modestissimo appartamento affittato da una contessa modestissima, se non proprio del tutto fasulla, i giocatori eravamo in quattro: la padrona di casa, un ufficiale di marina comandante del porto di Zara (mi pare) o comunque di una città dall'altra parte dell'Adriatico, e una signora davvero di tutto riguardo, la signora Ragghianti, moglie dell'addetto militare italiano a Tokyo e madre di Luciana, allora bella ragazzona simpatica alla quale stavo dando ripetizioni di filosofia, ricavando trenta lire all'ora (cifra superba e obbrobriosa che i  professori dei licei di Rimini, o forse solo quelli di greco o di matematica potevano sperare; ma avevo anche ripetizioni a cinque lire l'ora, mi pare). Giocando si chiacchierava anche di politica e per esempio l'ufficiale di marina diceva che c'erano navi che non ubbidivano agli ordini superiori, di aver litigato pochi giorni prima col comandante di un cacciatorpediniere che era entrato nel porto contrariamente alle sue disposizioni evitando per puro caso di scontrarsi con altre imbarcazioni, quando a un certo punto sentimmo delle esplosioni di grida in una stanza accanto alla nostra dove Luciana e altri ragazzi stavano ascoltando radio Londra (o radio Toulouse) con la notizia che il re aveva cacciato Mussolini dal governo e nominato al suo posto il maresciallo Badoglio. La sorpresa fu enorme, una vecchia generalessa che assisteva semplicemente al nostro bridge svenne e la padrona di casa si affrettò a cercare i Sali, la signora Ragghianti rimproverò la figlia di non urlare, se vuoi parlare che parli a bassa voce e se ricordo bene la prima nostra conclusione fu che non erano notizie attendibili, ma pochi minuti dopo anche la radio italiana diede quella notizia. Quando ritornai a casa mia a mezzanotte passata c'erano i nostri bagnanti, cioè chi aveva preso in affitto per l'estate un mezzo appartamentino in casa nostra (una camera e cucina), dei siciliani che poche settimane prima, una o due, avevano saputo che l'isola loro e casa loro erano state occupate dagli angloamericani: per loro quella notizia voleva dire che la guerra era verso la fine e che probabilmente alla fine dell'estate sarebbero potuti ritornare a casa loro; li trovai che cantavano marito e moglie e cantavano tutta la notte, mi disse poi mia mamma, con gioia vitale canzoni bellissime.
L'indomani mattina con Corrado andammo a Rimini in bicicletta a vedere la gente che festeggiava la caduta del fascismo: la gioia più grande, autentica, doveva essere quella per la sperata fine della guerra, mentre il peggio per noi, cioè per chi non era soldato, doveva ancora venire: mi ricordo ancora benissimo che il solo comunista Notorio di Viserba, un autista di taxi (erano due, originariamente, i comunisti di Viserba ma uno di essi, convocato nella loro sede dai fascisti di Viserba era morto per percosse il giorno dopo all'ospedale di Rimini - la sua vedova coraggiosa e orgogliosa, diventò per tutti a Viserba, "la vedova" tout court) gridava pressappoco "Contenti burdel" cioè ragazzi, "che la guerra è finita", ma io che l'ascoltai dissi a Corrado pressappoco "Purtroppo, ho paura che non sia vero nulla". Al ritorno da Rimini continuavamo a gridare alla gente "Viva l'Italia, Viva il re"; a Viserba imboccando la strada di casa nostra (abitavamo vicini Corrado e io) lo ripetei "Viva l'Italia, Viva il re" a uno degli ultimi incontrati che guardandoci fisso, mi pare, rispose severo, mi pare, "Viva l'Italia" soltanto; e a me venne il sospetto che volesse significare che non era la stessa cosa e ci pensai su, all'inizio del pensiero e dell'incontro un po' scocciato ma nel giro di pochi secondi pensai che aveva ragione lui e che eravamo stati sciocchi.