Tra 7 giorni — I lunedi' a casa di Ariosto – I poeti dei poeti: Matteo Fantuzzi (Milo de Angelis, Elio Pagliarani, Antonio Riccardi) – in – "I lunedi' a casa di Ariosto ...
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SECONDO MINIFESTIVAL DI POESIA: Fabio Cavalli/Elio Pagliarani ... SECONDO MINIFESTIVAL DI POESIA: Fabio Cavalli/Elio Pagliarani. di Fiamma Satta ... ritornodifiamma.vanityfair.it/ |
Fuori il vento piglia a schiaffi
quattro o cinque abeti squallidi:
gli orsi bianchi sono pallidi
pel gran freddo, e si dan graffi 10
l’un con l’altro per distrarsi...
Questo poeta che non crede a oltremondo (per questo, forse, anche scansa qualunque teodicea!), ha separato i campi del cielo e della terra (della ragione e della religione) con una durezza che pertiene solo (o soprattutto) alla fisiologia («lasciamo Dio che non ha bisogno di nulla / Predica lo Inferno: lui si leverà suso»: è ancora un Savonarola, mascherato o reduplicato iperrealisticamente, lugubre voce orripilata in deserto).
La malinconia impolitica di questo strano engagé disingaggiato: resta agguantare il fotogramma (non dirò l’epifania) della vita sfuggente, che non si sa mai dove stia (e cosa sia) ma sempre sguscia dispettosa già altrove (così «si arriva a un altro sabato, ma casca / un approccio, o si perde per aria: domenica bis»).Pagliarani ha spettinato e maltrattato spesso, tutte le volte che occorreva, le chiavi del suo cordofono: per amore della forma, ed in odio ai poetini in cerca del lauro (castigati & diarroici, li avrebbe mandati forse tutti al gabbio). Sapeva che il destino della poesia non si gioca su porzioni metriche; nemmeno su equivoche – arroganti o mal fondate – rimuginazioni di tradizione e avanguardia (da compartirsi in misura variamente omeopatica). Il tempo è un moloch, oppure anche non esiste: ‘je est un autre’, però insieme noi qui stiamo, forzati ad esistere in corpore empirico (‘hic NON manebimus optime’). Non ci si traveste come si sceglierebbe un abito; la lingua sceglie noi, e forse ci risputa. «L’eternità non ha termine o fine alcuno. / E però [= per hoc] le poesie non hanno senso allegorico».
Dietro il poeta politico – nei remotissimi esordî di Pagliarani – ritrovo a una svolta una specie di rabbiosa professione d’amour fou infervorato (quasi sorda minaccia sillabata o urlata): «Io non ti lascio alibi, ti amo / con la crudeltà necessaria per rischiare / la tua vita perché la mia è in gioco». Residuo secco surrealista? Mi dico (delirando) che questo è sempre Cavalcanti (va messo in conto – un’altra volta – alla lezione di Pound).
Un pazzo che gioca allo sfascio? No, un moralista che non si rifiuta al buffonesco: un momento fa scialo del proprio nervosismo o tedio, un altro veste panni di scimmia-ventriloquo, un attimo ancora e forse starà scolpendo qualche indovinello nella pietra («facciamo le corna ma il giusto / muore nel suo letto / anche Cristo l’ha detto»). Sono tanti giuochi di cacofonie preparate (vedi sub voce: ‘pianoforte preparato’); se non fossero enigmi talora anche sibillini o indecifrabili, sarebbe roba meschina da giullari (marionette del vaudeville padronale). Serve anzi fa benissimo, alla poesia, un acceleratore di gravità: separa il nucleo dall’elettrone, scioglie Perelà (o il deficiente Ubu) dalla gabbia.
Crescono, coi fatturati aziendali, gli indici del prodotto interno lordo; il progresso è un razzo ma le parole mancano (tranne quelle – sùbito evanescenti – del mercato). Porgere la battuta a chi non la trova: sarebbe ancora la vecchia ricetta dell’ottocento (deamicisiana, populista, troppo facile). Meglio auscultare gli oscillogrammi del rumore. Indignatio facit versum, ma poi chi mettere veramente nel mirino? Il bersaglio si sposta frenetico – come valsente che sembra mercurio impazzito. Tutti i santi aiutano, ma specialmente quelli modernisti: ricordano a Pagliarani che il potere è un moloch terribilmente comico. Va su come se fosse elio, questo poeta che non si riempie mai la bocca d’aria. Noi lasciamolo divertire, anche quando il latrato del riso rimanda un’eco atrabiliare (come un ghigno di sfinge): gli urti sono dissonanze programmate, cortocircuiti per fare esplodere il silenzio in mille pezzi. Divertimento: è uscire improvvisamente dal microsolco.
Glossolalìa può sempre risolversi in bellettrismo (eterogenesi dei fini?): forse il socialista libertario (il dottorino Elio, inurbato di Viserba) ha letto Gramsci meglio del chierico organico (o con più franco scapestrato disinteresse). «Proviamo ancora col rosso» (dirà più tardi Pagliarani): azzeriamo per un momento tutte le metafore. Una cosa è una cosa è una cosa. L’allegoria è teologica, ma la lettera è polisemica: il sermo humilis (Sanguineti-Auerbach) è una posizione stilistica, il sermo cotidianus (Pagliarani) una rivendicazione politica. La lingua dell’alienazione diventa gergo facilmente (oppure idioletto): non spacciamo una veglia funebre come fosse il primomaggio. Tra i feticci delle merci e della moneta, poco varrebbe atteggiarsi a profeti (nemmeno a cassandre): una palingenesi (se mai viene!) non sarà per domattina. Il fine è nulla ma il movimento è tutto, dunque in cinquant’anni potrà capitar spesso di rimettere mano all’organico strumentale. “Less is more”, ma poi le afasie vanno esplorate caso per caso, virando l’angoscia in latitudine paziente del discorso. Gli è che il caleidoscopio della realtà non sta vincolabile in nessuna formula. «Ci tocca vivere il no misurarlo coinvolgerlo in azione e tentazione»: per salmodiare la città che sale e cambia, non basta mai polmone o fiato (persino un doppio endecasillabo può sembrare un moncherino).
Dietro il poeta politico – nei remotissimi esordî di Pagliarani – ritrovo a una svolta una specie di rabbiosa professione d’amour fou infervorato (quasi sorda minaccia sillabata o urlata): «Io non ti lascio alibi, ti amo / con la crudeltà necessaria per rischiare / la tua vita perché la mia è in gioco». Residuo secco surrealista? Mi dico (delirando) che questo è sempre Cavalcanti (va messo in conto – un’altra volta – alla lezione di Pound).
La malinconia impolitica di questo strano engagé disingaggiato: resta agguantare il fotogramma (non dirò l’epifania) della vita sfuggente, che non si sa mai dove stia (e cosa sia) ma sempre sguscia dispettosa già altrove (così «si arriva a un altro sabato, ma casca / un approccio, o si perde per aria: domenica bis»). Pagliarani ha spettinato e maltrattato spesso, tutte le volte che occorreva, le chiavi del suo cordofono: per amore della forma, ed in odio ai poetini in cerca del lauro (castigati & diarroici, li avrebbe mandati forse tutti al gabbio). Sapeva che il destino della poesia non si gioca su porzioni metriche; nemmeno su equivoche – arroganti o mal fondate – rimuginazioni di tradizione e avanguardia (da compartirsi in misura variamente omeopatica). Il tempo è un moloch, oppure anche non esiste: ‘je est un autre’, però insieme noi qui stiamo, forzati ad esistere in corpore empirico (‘hic NON manebimus optime’). Non ci si traveste come si sceglierebbe un abito; la lingua sceglie noi, e forse ci risputa. «L’eternità non ha termine o fine alcuno. / E però [= per hoc] le poesie non hanno senso allegorico».
A Elio piacciono le belle ragazze, un po’ decise e con gli occhi intelligenti. E l’allieva di Ballerini, quella che lo segue per la conferenza a Madison, è proprio così. Una studentessa alta e bruna che guida una macchina che sembra un treno, di quelle con letto e frigo. Una garibaldina.A Madison è già autunno. Lettura a casa di Patrick e Grazia. Lago sullo sfondo. Bambini che corrono.Dopo, o prima?, nella libreria. Ma è una libreria speciale. Dove si possono bere cento tipi di cioccolata e cento tipi diversi di the o caffè. Via vai di studenti.Brava. Ma che brava.Anche qui una grande vetrata. Sembra il paese di Peter Pan. Mentre guardo per strada non passa nessuno che abbia più di venticinque anni.
Pagliarani in U.S.A.Telecamera II
Cerco di ricordarmi di Amedeo. Com’è che fa Amedeo? Tiene fisso l’occhio. Fa qualche zoommata, poche. Inquadra per linee. Tengo presente la ripresa stupenda di Rosselli e Corso. Tengo presente la ripresa del Paglia sulle scale di Via Margutta. Tengo presente che l’occhio deve lasciare che parlino le mani del Paglia. Di striscio, in diagonale.Ma Amedeo è abituato a reggere pesi. Perché per tenere una telecamera ci vuole un polso forte e una mano ferma, fermissima, cosa che non ho. Riuscire a cambiare cassetta in tempo. Riuscire ad evitare i fruscii. Riuscire a ricaricare per tempo la macchinina. E mentre si pensano, si fanno tutte queste cose, la loro lettura in duetto avanza e come si fa a perderla? Dunque per ansia di fissare la mano trema e il fruscio si fa sempre più forte. Eppure quei due sono stupendi. Fanno un duetto Pagliarani e Vangelisti. Sono sostenuti dalla stessa cosa. Dalla stessa scommessa – io tanto ho consegnato un biglietto/ c’è scritto che non rinuncio - vederli insieme in diagonale, creare io la diagonale, la voce di Paul che marca e costeggia quella del Paglia. Il Paglia che lo guarda come si guarderebbe un figlio più giovane. Chi se ne importa del fischio e del balletto delle immagini. Sono di scuola Pagliarani e non lo so. Sto ai margini. Sempre. Sto imparando. “ E non ho ancora finito di farlo”.Le linee della poesia del Paglia. La circolarità non ossessiva del testo. Dirlo per immagini. Dirlo per sbaglio.
La violenza del sentire. L’essere qui adesso. Ci sta bene che sia spezzato dal mio dilettantismo. Non sono un regista Rai. Sono di scuola Pagliarani.
"..nel suo pezzo riferisce di una “esacerbata moralità”, di uno “stoicismo brutale”, di una “passione pedagogica”, di “un’attitudine teatrale”: tutte cose della persona-Elio Pagliarani, non della sua poesia che resiste comunque anche se egli fosse stato un uomo timido o estroverso. Allora giova conoscere il poeta? Giova conoscere l’oggetto-persona della tua critica? No! Giova nella misura in cui decidi di stare dentro la poetica oppure di curiosare, di indagare, (come fece Antonio Ranieri con Leopardi); nei casi estremi è utile a farti chiarire quello che il poeta ha scritto.