martedì 17 aprile 2012
[Portrait] Gabriele Frasca
Una poesia vive dell’innesto di organi altrui, fra una crisi di rigetto e l’abbassamento delle difese del sistema immunitario. L’autore letteralmente ne muore. Se Pagliarani è un poeta, e lo è in modo eccelso, è perché si è lasciato abitare.
Quella che ci mancherà di lui, allora, è in verità la voce. Non il tono, la grana, gli accenti o quello che volete, che naturalmente sono stati infinite volte registrati, a partire dalla pagina stessa, che di suo è un grammofono. La voce ci mancherà nel suo sorgere, quando a ogni esecuzione replicava lo stesso dramma dell’accoglienza. A quanti uomini infami, convocati uno per volta, e poi persino in coro (già: «siamo in troppi a farmi schifo»), dava asilo Pagliarani. Ricordiamo tutti quanto in un primo momento quella voce gorgogliasse, quasi a pelo di palude stigea, come se insomma dovesse emergere da quella tristitia profonda dove si è in tanti, e tutti nella stessa melma. Poi, d’improvviso, diventava il rimbombo di una caverna, o l’eco di un teatro.
Difficile, a sentirla risuonare, non comprendere allora quale fosse il vero scopo della sua poesia, che solo i sordi poterono sentire residuo di un correlativo oggettivo ancora di stampo
eliotiano. Pagliarani nei suoi versi non dava la parola a nessuno, né a una persona poundiana né all’esatto negativo del principe Amleto. Gli uomini infami non premevano i suoi versi con il loro balbettio per prendere la parola. Nessuno ha bisogno di parole, se non per farne un romanzetto, sia pure quello della propria vita. Quegli uomini, come tutti, volevano una voce.[Gabriele Frasca]
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