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venerdì 1 giugno 2012

con Elio Pagliarani in studio


Nel ricordo dell'autore della "Ragazza carla" 
Io nella seconda guerra mondiale; anzi la seconda guerra mondiale io in quella dentro. Primo ricordo: dissi o scrissi a Tertulliano, nel '39-40, cioè nei miei dodici-tredici anni, di essere assolutamente contrario alla guerra, che per noi Italiani sarebbe andata male in ogni caso: se avessero vinto i Tedeschi saremmo diventati non più che loro vassalli (come avevamo già cominciato ad esserlo con le leggi razziali del '38: ma questo lo penso ora), figuriamoci se avessero vinto gli alleati. Mi stupii anche allora di aver adoperato il termine "vassalli", così vecchiotto. Ricordo anche che una volta pensai che la guerra avrebbe portato alla svalutazione della moneta e quindi sarebbe stato bene possedere delle azioni e scelsi dentro di me le Eridania, zucchero e alimentari: non sarebbero crollate, la gente mangia sempre (occorre dirlo che in casa mia né allora né dopo si sono m ai viste, nemmeno per vedere come sono fatte, quel tipo di azioni, alimentari e non ?).
Quando ci trovammo dentro, nella guerra, la mia prima attività specifica, cioè collegata, dovuta alla guerra, consistette nel portare sacchetti di grano a macinare, a farne farina per pane e pasta (grano da macinare che compravamo a buon prezzo dagli zii poi tutori di mia mamma diventata a sette anni orfana di entrambi i genitori; questi zii erano mezzadri di un buon podere a Riserba a monte). C'erano dei mulini che macinavano clandestinamente trattenendosi il compenso con una modesta parte di farina macinata.
Non ho mai saputo e non so in che cosa consisteva la clandestinità di quella operazione: so che non la effettuavano tutti i mulini e che questi non erano sempre gli stessi; dove si trovassero non era difficile capirlo: bastava addentrasi un po' nella campagna più fitta e a un certo punto, facilmente ci si imbatteva in un mucchio di gente che faceva la fila: erano quasi tutte donne, e qualche ragazzetto come me: io in bicicletta portando ogni volta tra i venti e i trenta chili di grano. Talvolta la fila scorreva rapida, talaltra era lentissima, nel qual secondo caso io, nel '41-42, mi arricchivo di qualche esperienza teorica del mondo. Per preciso esempio: a un certo punto mi accorgo che c'è, se non proprio una lite, un battibecco risentito fra due donne o tre: a una sarebbe sfuggita la parola "cazzo"; un'altra l'avrebbe rimproverata dicendole: "... poi stavi parlando con una dell'Azione cattolica...”, ma si ebbe questa precisa risposta gridata: "Perché, a lei non gli piace? Io ho vent'otto anni, lo conosco da quattordici e mi ci trovo benissimo!”.
Un altro ricordo preciso è dell'inverno '42-43 in treno: l'inverno andavo a scuola a Rimini in treno e ogni tanto si formavano, fra noi studenti di Vìserba, Bellaria, Cesenatico che andavamo a scuola a Rimini, dei crocchi nei quali io stavo più spesso zitto, ma quasi sempre attento e curioso: in questo contesto sentii affermare gravemente da un ragazzo magro e pallido, ma già grandino, di due o tre anni più grande di me, notoriamente cattolico e frequentatore del Vescovado di Rimini (non so proprio a che titolo) che ormai avevamo perso la guerra (probabilmente si riferiva alle conseguenze della battaglia di Stalingrado, ma questo allora non lo sapevo e comunque non mi pare che quel ragazzo di  Cesenatico lo avesse precisato). Comunque mi fece un certo effetto sentirmelo dire in quel periodo in quel contesto.
Io per me passavo il tempo libero dal poker, al ramino-pokerato, al bridge e a dare ripetizioni private anche ben pagate. Una sera del luglio '43 stavo giocando a bridge a Viserba, in un modestissimo appartamento affittato da una contessa modestissima, se non proprio del tutto fasulla, i giocatori eravamo in quattro: la padrona di casa, un ufficiale di marina comandante del porto di Zara (mi pare) o comunque di una città dall'altra parte dell'Adriatico, e una signora davvero di tutto riguardo, la signora Ragghianti, moglie dell'addetto militare italiano a Tokyo e madre di Luciana, allora bella ragazzona simpatica alla quale stavo dando ripetizioni di filosofia, ricavando trenta lire all'ora (cifra superba e obbrobriosa che i  professori dei licei di Rimini, o forse solo quelli di greco o di matematica potevano sperare; ma avevo anche ripetizioni a cinque lire l'ora, mi pare). Giocando si chiacchierava anche di politica e per esempio l'ufficiale di marina diceva che c'erano navi che non ubbidivano agli ordini superiori, di aver litigato pochi giorni prima col comandante di un cacciatorpediniere che era entrato nel porto contrariamente alle sue disposizioni evitando per puro caso di scontrarsi con altre imbarcazioni, quando a un certo punto sentimmo delle esplosioni di grida in una stanza accanto alla nostra dove Luciana e altri ragazzi stavano ascoltando radio Londra (o radio Toulouse) con la notizia che il re aveva cacciato Mussolini dal governo e nominato al suo posto il maresciallo Badoglio. La sorpresa fu enorme, una vecchia generalessa che assisteva semplicemente al nostro bridge svenne e la padrona di casa si affrettò a cercare i Sali, la signora Ragghianti rimproverò la figlia di non urlare, se vuoi parlare che parli a bassa voce e se ricordo bene la prima nostra conclusione fu che non erano notizie attendibili, ma pochi minuti dopo anche la radio italiana diede quella notizia. Quando ritornai a casa mia a mezzanotte passata c'erano i nostri bagnanti, cioè chi aveva preso in affitto per l'estate un mezzo appartamentino in casa nostra (una camera e cucina), dei siciliani che poche settimane prima, una o due, avevano saputo che l'isola loro e casa loro erano state occupate dagli angloamericani: per loro quella notizia voleva dire che la guerra era verso la fine e che probabilmente alla fine dell'estate sarebbero potuti ritornare a casa loro; li trovai che cantavano marito e moglie e cantavano tutta la notte, mi disse poi mia mamma, con gioia vitale canzoni bellissime.
L'indomani mattina con Corrado andammo a Rimini in bicicletta a vedere la gente che festeggiava la caduta del fascismo: la gioia più grande, autentica, doveva essere quella per la sperata fine della guerra, mentre il peggio per noi, cioè per chi non era soldato, doveva ancora venire: mi ricordo ancora benissimo che il solo comunista Notorio di Viserba, un autista di taxi (erano due, originariamente, i comunisti di Viserba ma uno di essi, convocato nella loro sede dai fascisti di Viserba era morto per percosse il giorno dopo all'ospedale di Rimini - la sua vedova coraggiosa e orgogliosa, diventò per tutti a Viserba, "la vedova" tout court) gridava pressappoco "Contenti burdel" cioè ragazzi, "che la guerra è finita", ma io che l'ascoltai dissi a Corrado pressappoco "Purtroppo, ho paura che non sia vero nulla". Al ritorno da Rimini continuavamo a gridare alla gente "Viva l'Italia, Viva il re"; a Viserba imboccando la strada di casa nostra (abitavamo vicini Corrado e io) lo ripetei "Viva l'Italia, Viva il re" a uno degli ultimi incontrati che guardandoci fisso, mi pare, rispose severo, mi pare, "Viva l'Italia" soltanto; e a me venne il sospetto che volesse significare che non era la stessa cosa e ci pensai su, all'inizio del pensiero e dell'incontro un po' scocciato ma nel giro di pochi secondi pensai che aveva ragione lui e che eravamo stati sciocchi.

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